LA CORTE DI CASSAZIONE
   Ha  pronunciato  la  seguente  ordinanza  sul ricorso proposto dal
Procuratore  generale  della  Repubblica presso la Corte d'appello di
Genova nei confronti di 1) Sommaria Matteo nato il 25 maggio 1984; 2)
Bertocchi  Attilio  nato  il  28 agosto 1938; avverso sentenza del 25
novembre 2005 del giudice di pace di Voltri.
   Visti gli atti, la sentenza ed il ricorso;
   Udita  in  pubblica  udienza  la  relazione  fatta dal consigliere
Novarese Francesco;
   Udito il Procuratore generale in persona del dott. G. Febbraro che
ha concluso per il rigetto del ricorso;
   Udito,  per  la  parte  civile,  l'avv.  P.  Asta  in sostituzione
dell'avv.  E.  Lamberti che si costituisce per gli eredi e si riporta
alle  conclusioni  scritte con cui chiede l'accogliemento del ricorso
del p.g. ovvero la sua conversione in appello;
   Uditi,  i  difensori avv. C. Zadra per Sommariva e P. Bugliolo per
Bertocchi i quali chiedono il rispetto del ricorso proposto dal p.g.
   Il  Procuratore,  generale presso la Corte di appello di Genova ha
proposto ricorso per cassazione, depositato il 10 marzo 2006, avverso
la  sentenza  del  giudice  di  pace di Voltri, emessa in 25 novembre
2005,  depositata il 31 gennaio 2006, con la quale Sommariva Matteo e
Bertocchi  Attilio,  rispettivamente  in  qualita' di conducente e di
istruttore   alla  guida,  venivano  assolti  dal  reato  di  lesioni
personali  colpose  gravi  ed  aggravate dalla violazione delle norme
sulla   circolazione   stradale,   deducendo  quali  motivi  l'omessa
ammissione  di una prova decisiva e l'illogicita' manifesta e carenza
di  motivazione  in  ordine  all'omessa  ammissione  di  una  perizia
tecnico-infortunistica,  tesa ad accertare le modalita' del sinistro,
poiche'  non potevano ritenersi sufficienti il rapporto della Polizia
Municipale,  i  rilievi  fotografici e le acquisizioni processuali di
deposizioni  testimoniali,  giacche'  i  due  veicoli, al momento del
sinistro, erano in moto, e la violazione ed errata applicazione degli
artt.   41  e  43  c.  p.  e  dell'art.  141  cod.  strad.,  poiche',
all'approssimarsi  di  un  incrocio,  occorre  procedere con un grado
elevatissimo  di  cautela  ed  avvedutezza  e non poteva ritenersi un
fatto  del  tutto  imprevedibile,  in  assenza  di  cordoli  o  altra
delimitazione  con  ostacoli  fissi,  la possibilita' che un veicolo,
invece  di  effettuare  la  svolta  a  destra, giacche' percorreva la
corsia  a  cio'  deputata,  proseguisse  la  marcia, consentita dalla
corsia  esterna, e venisse in collisione con altro veicolo che stesse
svoltando a sinistra.
   Dalla narrazione della vicenda processuale risulta che la sentenza
ed   il  deposito  della  motivazione  sono  stati  effettuati  prima
dell'entrata  in  vigore  della  legge  n. 46  del  2006, mentre solo
l'impugnazione  e'  stata  proposta il giorno successivo, sicche', ai
tini  di  individuare la normativa applicabile occorrerebbe riferirsi
ad  alcune  tematiche  relative  al  principio  tempus  regit actum e
precisamente, oltre all'impostazione generale, all'individuazione del
momento   in   cui   opera   in   materia  di  impugnazioni  ed  alla
qualificazione giuridica della stessa.
   Tuttavia,  l'art  10,  secondo  comma,  legge n. 46 del 2006 nello
stabilire  il  regime  transitorio  prevede  che  «l'appello proposto
contro  una  sentenza  di  proscioglimento...  dal pubblico ministero
prima  della  data  di  entrata  in  vigore  della  ...  legge, viene
dichiarato  inammissibile  con  ordinanza non impugnabile» sicche' il
preciso  dato  normativo  di questa disposizione, che non puo' essere
ritenuta contenere un termine impreciso «proposto», la cui pregnanza,
invece, discende dal sistema delineato, dimostra l'opzione effettuata
tra le varie tesi avanzate in dottrina ed in giurisprudenza.
   Ed invero, la pacifica giurisprudenza di questa Corte (Cass., sez.
IV,  7  giugno  2004,  n. 25303, rv. 228952 e Cass., sez. I, 1° marzo
2006,  n. 77403,  rv.  233137),  ha affermato che il principio tempus
regit  actum  concerne  ogni  legge  processuale,  anche  in  tema di
impugnazione.
   Pertanto,  sara'  sufficiente  riassumere  detti indirizzi: per le
decisioni  su  richiamate deve applicarsi fa norma vigente al momento
della  proposizione  dell'impugnazione,  (cfr. anche Cass. sez. I, 20
dicembre  2001,  Salerno  rv. 220372; Cass., sez. VI, 11 maggio 2000,
n. 5558,  rv.  216414  e  Cass.  sez  VI 11 luglio 2001/ n.27858, rv.
219974),  mentre  altre  (Cass.  sez. un 30 aprile 2002, n. 16102 non
massimata  sul  punto,  Cass.,  sez. III, 18 febbraio 2002, n. 6493 e
Cass.,  sez.  V,  14  febbraio 2003, n. 7370 non massimata sul punto)
ritengono applicabile il nuovo regime impugnatorio solo alle sentenze
depositate  successivamente  all'entrata  in  vigore  ed altre ancora
(Cass.,  sez. V, 29 settembre 2001, n. 3484, rv. 219817 e Cass., sez.
V, 9 ottobre 2001, n. 36354, rv. 2l9816) individuano detto tempus nel
periodo  intercorrente  tra la pronuncia della sentenza e la scadenza
del  termine  per  impugnare,  ed,  infine, altre (Cass., sez. III, 6
agosto  2001,  n. 30541,  rv. 220582, ispirate da Cass., sez. un., 15
maggio  1989,  n. 4,  rv.  181343 e Cass., sez. un, 25 febbraio 1984,
Vedda in Cass. pen. 1984, 2143 e confortate di recente da Cass., sez.
un, 12 luglio 2007, n. 2761 4, p.c. in proc. Lista) considerano quale
linea di discrimine il momento di emissione della sentenza.
   Percio',   dato   atto  che,  in  seguito  alla  dichiarazione  di
illegittimita'  costituzionale  del regime transitoria, lo stesso non
si applica piu' all'appello proposto in data anteriore all'entrata in
vigore  della  legge  avverso le sentenze di proscioglimento da parte
della   pubblica   accusa  limitatamente  al  giudizio  ordinario  ed
abbreviato,  secondo  quanto  chiarito dalla sentenza n. 320 del 2007
della   Corte   costituzionale,  mentre  nei  confronti  delle  altre
disposizioni  permane la validita' di detta norma in uno con quella a
regime  nella  fattispecie,  l'impugnazione deve ritenersi «proposta»
sotto  il vigore della nuova legge n. 46 del 2006, in quanto un esame
sistematico  dell'art.  10,  legge  cit.,  dimostra l'esistenza di un
inequivoco dettato normativo, che individua quale punto di discrimine
tra   i  due  differenti  regimi  impugnatori  quello  dell'epoca  di
proposizione  dell'impugnazione  e  non l'altro del momento in cui e'
stata pronunciata la sentenza.
   Risolta   questa  problematica,  bisogna  affrontare  la  tematica
relativa  alla  qualificazione  giuridica dell'impugnazione, giacche'
costante  giurisprudenza di questa Corte (Cass., sez. IV, 12 novembre
2003,  n. 43367,  rv  226410  e  Cass.,  sez.  IV,  26  ottobre 2004,
n. 41694,  rv  230079), in applicazione della disciplina generale del
codice  di  rito  (art.  568 c.p.p.), richiamata in via suppletiva da
quella  concernente  il  giudice  di pace (art. 2, d.legs. n. 274 del
2000),  ha  ritenuto  ammissibile  il  ricorso  per saltum avverso le
sentenze di quel magistrato ed ha individuato il giudice di rinvio in
quello  monocratico  del  tribunale, perche' cosi' indicato dall'art.
39,  legge  citata sicche' avverso le sentenze di proscioglimento del
giudice  di pace per reati puniti con pena alternativa qual e' quello
in  esame  e' ammesso il predetto ricorso (art. 36, d.lgs. cit.), con
conseguente applicazione dell'art. 569 terzo comma, ove venga dedotto
un vizio motivazionale o l'omessa assunzione di una prova decisiva.
   Orbene,  nella  fattispecie,  il  ricorso  riguarda  la violazione
dell'art.  606, lett. d) ed e) c.p.p., oltre all'erronea applicazione
degli artt. 41 e 43 c.p., sicche', ove si qualificasse l'impugnazione
come ricorso per saltum, occorrerebbe convertirlo in appello ai sensi
del  citato  art.  569  c.p.p., ma, in base all'art. 10, primo comma,
legge  n. 46  del  2006, la disciplina limitativa dell'appellabilita'
delle  sentenze  di  proscioglimento,  anche  nel giudizio dinanzi al
giudice  di pace, si applica a tutti i procedimenti in corso, sicche'
occorrerebbe individuare nel primo giudice quello competente.
   Pertanto,  sotto  entrambi  questi  aspetti,  appare  rilevante la
questione di legittimita' costituzione degli artt. 9, secondo comma e
10,  secondo  comma,  legge  n. 46  del  2006,  nella  parte  in cui,
attraverso  la  modificazione  introdotta nell'art. 36, d.lgs. n. 274
del 2000, non consente al pubblico ministero di appellare la sentenza
di proscioglimento del giudice di pace e correlativamente prevede che
l'appello  proposto  (o,  se  si  vuole, tale qualificato) avverso la
predetta  sentenza  dal p.m. prima dell'entrata in vigore della legge
«Pecorella»   sia   dichiarato   inammissibile   con   ordinanza  non
impugnabile in relazione agli artt. 3 e 111 Cost.
   Dimostrata   la   rilevanza   della   questione   di  legittimita'
costituzionale   sollevata,   la  stessa  non  appare  manifestamente
infondata  anche  alla luce dei contenuti delle sentenze nn. 26 e 320
del  2007  della  Corte  costituzionale,  con  le  quali  sono  state
dichiarate  l'illegittimita'  costituzionale  dell'art.  10,  secondo
comma,  legge  n. 46  del  2006,  nella  parte  in  cui  prevede  che
l'appello,  proposto  dal  pubblico  ministero,  prima  della data di
entrata  in  vigore  della  legge  medesima,  contro  le  sentenze di
proscioglimento,  emesse  in  giudizio  ordinario  ed  abbreviato, e'
dichiarato inammissibile.
   A  tal  riguardo,  tralasciata la trattazione di ogni problematica
circa  il  perimetro  del giudizio di costituzionalita', il principio
della  corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, l'oggetto del
giudizio  in  via  incidentale  della  Corte costituzionale, cioe' se
siano  le  norme  o le disposizioni, e la portata dell'art. 27, legge
n. 87  del  1953, rilevando, comunque, che il Giudice di legittimita'
delle  leggi (ex gr. vicenda del solve et repete sent. n. 21 del 1961
e  poi  n. 79  s.a.  e  nn.  45  e  86  del  1962)  ha sempre escluso
l'implicita  caducazione di norma «identica» nella sua ratio rispetto
a  quella  dichiarata incostituzionale, ove questa norma debba essere
indicata  con  riferimento  a  differenti parametri testuali, occorre
esaminare le sentenze nn. 26 e 320 del 2007 su indicate attraverso la
descrizione della loro struttura e dei principi affermati.
   La  Corte  costituzionale effettua un ampio excursus sul principio
di  parita' delle parti che include pure il regime delle impugnazioni
e non comporta necessariamente l'identita' dei poteri processuali del
p.m.  dell'imputato con riferimento alle numerose pronunce in tema di
inappellabilita'  da  parte  del  primo  delle  sentenze di condanna,
emesse  con  il  rito  abbreviato,  salvo  che  non  sia  intervenuta
modificazione  del  titolo  del  reato ed afferma, in conformita' con
dette  decisioni, che le alterazioni della simmetria dei poteri delle
parti  devono trovare una giustificazione razionale e ragionevole, in
un'ottica  di  complessivo  riequilibrio  dei  poteri,  e  nel  ruolo
istituzionale del pubblico ministero.
   Pone,  quindi,  al centro dell'articolata pronuncia come principio
coessenziale  del giusto processo, in suscettibile di essere posto in
secondo  piano  rispetto  agli altri versanti contenuti nell'art. 111
Cost.  (contraddittorio,  imparzialita'  e  terzieta'  del  giudice),
quello  della parita' delle parti, non limitato al solo «procedimento
probatorio»,  ma  dotato  di  una specifica dimensione garantista che
informa  l'intera  vicenda  processuale  e  che  era  enucleabile dal
sistema dei valori costituzionali.
   Una  diversa  e differente lettura del principio evocato finirebbe
«per  attribuire  al  principio  di parita' delle parti, in luogo del
significato   di  riaffermazione  processuale  dei  principi  di  cui
all'art. 3 Cost., un'antitetica valenza derogatoria di questi ultimi:
soluzione  tanto  meno plausibile a fronte del tenore letterale della
norma costituzionale, nella quale la parita' delle parti e' enunciata
come   regola   generalissima,   riferita  indistintamente  ad  "ogni
processo"  e senza alcuna limitazione a determinati momenti o aspetti
dell'iter processuale» (Corte cost. sent. n. 26 del 2007).
   Pertanto  il principio di ragionevolezza e di eguaglianza e quello
di  parita'  delle parti sono i due pilastri su cui si fondano le due
decisioni della Consulta su richiamate.
   Riaffermata  l'assenza  di  un  riconoscimento  costituzionale  al
doppio  grado  di giurisdizione e svolte queste premesse generali, la
Corte  sgombra  il  campo da un equivoco insidioso, consistente nella
possibilita'  di giustificare una determinata differenza sul semplice
rilievo  della presenza nel sistema di altre asimmetrie, in quanto il
vaglio  di  ragionevolezza  «va  condotto  sulla  base  del  rapporto
comparativo  tra  la  ratio  che  ispira,  nel singolo caso, la norma
generatrice  della  disparita'  e  l'ampiezza  dello  scalino da essa
creato   tra  le  posizioni  delle  parti:  mirando  segnatamente  ad
acclarare   l'adeguatezza   della   ratio   e   la   proporzionalita'
dell'ampiezza   di  questo  "scalino"  rispetto  a  quest'ultima»,  e
richiede  l'effettuazione  di  detta  verifica  per  non  svuotare di
significato il principio di parita' delle parti.
   Dichiara,  quindi, l'illegittimita' costituzionale degli artt. 1 e
2  e  10,  secondo comma, legge cit. sulla base del contrasto con gli
artt.  3 e 111 Cost., in quanto l'asimmetria e' radicale cioe' estesa
a  qualsiasi  processo  ed  anche ai casi di totale «soccombenza» del
p.m.  in  contrasto  con  le  esigenze  di  una  verifica piena della
correttezza  delle  valutazioni  del  giudice  di primo grado e della
possibilita'  di  errori, e' generale cioe' non e' limitata ad alcune
categorie di reati ed e' unilaterale cioe' non trova alcuna specifica
«contropartita» in particolari modalita' di svolgimento del processo,
giacche'   tali   non   sono   l'esigua  limitazione  del  potere  di
impugnazione    delle    sentenze   di   proscioglimento   da   parte
dell'imputato,  l'ampliamento  del motivo deducibile in Cassazione ex
art.  606,  lett.  e)  c.p.p.,  esteso  ad  entrambe  le  parti, e la
possibilita'  piu'  astratta  che concreta di poter proporre appello,
ove  sussista  una  prova  successiva  decisiva, mentre la previsione
dell'inappellabilita'    delle   sentenze   di   proscioglimento   e'
«intrinsecamente  contraddittoria rispetto al mantenimento del potere
di appello del pubblico ministero contro le sentenze di condanna».
   Esamina,  infine,  le obiezioni alla possibilita' di appellare una
sentenza  di  proscioglimento  da  parte  del  p.m.  contenute  nella
relazione alla c.d. legge Pecorella, rilevandone:
     d)  l'erroneita'  in relazione alla pretesa natura «persecutoria
del  gravame» che, invece, tende ad i attuare i principi di legalita'
ed  eguaglianza  e  lo  scopo istituzionale del p.m. di assicurare la
corretta applicazione della legge penale;
     e)  l'inconferenza  del  riferimento  all'art.  2 del protocollo
addizionale  n. 7  della  CEDU  ed  all'art. l4, paragrafo 5 del c.d.
Patto  di  New  York,  poiche'  dette  norme  sono  state modificate,
prevedendo  eccezioni quale quella espressa della condanna in secondo
grado;
     f)  la  non  decisivita'  dell'affermata  distonia  del  sistema
fondata  sul  rapporto  mediato  del giudice di appello con le prove,
giacche'  tale  argomentazione vale pure per la sentenza di condanna,
sicche'  viene  censurato il carattere settoriale della novella senza
una  revisione  organica  delle  impugnazioni, nel cui ambito, con le
direttive  tornite  ed  ulteriormente  sviluppate  nella parte finale
della  motivazione,  potrebbe  inserirsi una bilanciata revisione dei
poteri delle parti.
   Il  dispositivo  delle sentenze in esame per tutte le disposizioni
scrutinate  utilizza  la locuzione «nella parte in cui» sicche' si e'
in  presenza  di  una  dichiarazione di illegittimita' costituzionale
parziale,  nel senso che non concerne tutte le disposizioni contenute
nella legge e relative ad altri giudizi.
   Con  riferimento  all'art. 10, legge cit., poi, la sentenza n. 320
del  2007  ha  spiegato  che l'omessa dichiarazione di illegittimita'
costituzionale  del primo comma non rileva, in quanto esprime solo il
principio  generale tempus regit actumt mentre quella del terzo comma
non  interessa,  perche'  detta norma rimane inapplicabile, una volta
che  anche per il giudizio abbreviato sia venuta meno la possibilita'
di   dichiarare  inammissibile  l'appello  proposto  dal  p.m.  prima
dell'entrata in vigore della legge n. 46 del 2006.
   Questa  sentenza  dimostra  in  maniera  evidente  come  la  Corte
costituzionale  consideri  in  maniera  separata  i  vari  giudizi  e
dichiari   l'illegittimita'   costituzionale  dell'art.  10  solo  in
relazione ad alcune tipologie, tanta e' vero che sono state sollevate
varie questioni di legittimita' costituzionale per gli altri (cfr. da
ultimo  Cass.,  sez.  II, 6 novembre 2003, proprio sull'art. 9, legge
n. 46 del 2006).
   La  questione  di  legittimita'  gia'  individuata,  a  parere del
collegio,  presenta  le  medesime  ragioni  sviluppate dalla Consulta
nelle  sentenze  nn.  26  e 320 del 2007 e gia' riassunte, sicche' le
stesse  non  vengono  ripetute per evitare ridondanze di trattazione,
limitandosi a correlare i principi espressi con la peculiarita' della
giurisdizione di pace.
   A  tal  riguardo,  non ignora il collegio le numerose pronunce del
Giudice   di   legittimita'   delle   leggi,  mirabilmente  riassunte
nell'ordinanza  n. 28 del 2007, con le quali si e' rimarcato «come il
procedimento   davanti   al   giudice   di  pace  presenti  caratteri
assolutamente  peculiari,  che  lo  rendono  non  comparabile  con il
procedimento  davanti  al  tribunale, e comunque tali da giustificare
sensibili deviazioni rispetto al modello ordinario» (ex plurimis ord.
n. 27 del 2007, nn. 85 e 415 del 2005 e nn. 10, 11, 55, 56, 57, 201 e
349  del 2004 e n. 231 del 2003), illustrando le forme alternative di
definizione  del  giudizio,  non  previste  dal  codice  di  rito, la
connotazione   del   procedimento   caratterizzato  da  un'accentuata
semplificazione,  dall'attribuzione  alla  competenza  del giudice di
pace  di  reati  di  minore  gravita'  con  un apparato sanzionatorio
autonomo,   dal  ruolo  particolare  della  persona  offesa  e  della
conciliazione  tali  da  giustificare  razionalmente l'esclusione dei
c.d.  riti  alternativi (ord. n. 228 del 2005), e dal ruolo marginale
che,  in  detto  procedimento, e' assegnata alle indagini preliminari
(ord. n. 349 del 2004).
   Tuttavia,  a  parere  del  collegio, dette caratteristiche possono
giustificare  sensibili deviazioni dal modello del codice di rito, ma
non  il  completo stravolgimento del regime delle impugnazioni, tanto
piu' che non sempre reati bagatellari sono attribuiti alla competenza
del giudice di pace.
   A  tal  proposito, bisogna richiamare la questione di legittimita'
costituzionale  degli artt. 4, 52, 63 e 64 d.lgs. n. 274 del 2000 con
riferimento  agli  artt.  3,  27, terzo comma e 32 Cost. sollevata da
questa  sezione  nella parte in cui attribuiscono il reato di lesioni
personali   colpose   commesse   con  violazione  delle  norme  sulla
disciplina della circolazione stradale alla competenza del giudice di
pace  con  la  conseguente applicabilita' delle sanzioni previste dal
predetto art. 52, d.lgs. n. cit.
   Infatti,  senza  addentrarsi  nell'esposizione e considerazione di
detta  questione,  ove  la  stessa venisse dichiarata inammissibile o
manifestamente   infondata   o,  comunque,  non  fondata  e,  quindi,
rigettata,  apparirebbe  ancor  piu'  evidente  l'asimmetria radicale
cioe'  estesa  a  qualsiasi tipologia di processo ed anche ai casi di
totale  soccombenza,  in  un  giudizio come quello in esame, relativo
alla  violazione  delle  norme sulla circolazione stradale, in cui le
esigenze  di  una  verifica piena della correttezza delle valutazioni
del  giudice  di primo grado e della possibilita' di errori, traspare
da tutto il primo motivo e dalle caratteristiche di questi reati, per
i  quali, anche dopo due gradi di giudizio, il ricorso per cassazione
a volte impinge considerazioni nel merito.
   Peraltro,  permarrebbe,  comunque, l'unilateralita', in quanto non
esiste   alcuna  vera  contropartita  all'esclusione  del  potere  di
appellare  attribuito  al  p.m.,  non  giustificabile,  a  parere del
collegio,  dalla  limitazione ad alcune categorie di reati, atteso il
particolare   impatto  sociale  di  alcuni  di  essi,  mentre  appare
contraddittorio  il  mantenimento del potere di appellare le sentenze
di condanna a pena diversa da quella pecuniaria.
   Torna,   ancora,   in  rilievo  l'esatto  monito  del  Giudice  di
legittimita'  delle  leggi,  secondo  cui  la  riforma  del regime di
appellabilita'  delle  sentenze non puo' essere settoriale e, peggio,
parziale, ma deve essere inquadrata in un discorso generale e globale
sulla  rimeditazione  del  regime  delle  impugnazioni, sicche', pure
sotto  questo  profilo, i connotati peculiari del giudizio dinanzi al
giudice  di  pace  divengono  sfumati ed appaiono non coessenziali al
particolare  vulnus  agli  artt.  3  e 111 Cost., rilevato gia' dalla
Corte costituzionale.
   Non  sembra  neppure inquadrabile l'impossibilita' di appellare le
sentenze  di proscioglimento e di assoluzione da parte del p.m. in un
riequilibrio  dei  poteri  di impugnazione attribuiti all'imputato in
maniera piu' limitata rispetto al rito ordinario nel caso di sentenza
di  condanna  alla sola pena pecuniaria, in quanto la possibilita' di
esperire  detto  gravame  da  parte  del prevenuto esiste qualora sia
stata  pronunciata  condanna anche generica al risarcimento del danno
(art.  37.  d.lgs.  n. 274  del  2000),  mentre, secondo qualche voce
dottrinale,  non  sarebbe  applicabile  al  p.m. il nuovo dettato del
secondo  comma  dell'art.  593  c.p.p.,  nonostante i limitati e poco
decisivi effetti gia' ampiamente chiariti nelle sentenze nn. 26 e 329
del 2007 della Corte costituzionale.
   Inoltre,  a  parere  del  collegio,  il collegamento esistente tra
potere  di  impugnazione della parte offesa, nei casi di cui all'art.
21, d.lgs. cit., e quello del p.m. (art. 38, d.lgs. cit.) finisce con
il  ridurre drasticamente il molo attribuito alla stessa in contrasto
con  un connotato tipico del procedimento dinanzi al giudice di pace,
incidendo    in    maniera    considerevole   sulle   sue   peculiari
caratteristiche.
   Non e' un caso che nella relazione al decreto legislativo in esame
venisse  posto  in luce il nesso di interdipendenza tra la disciplina
della  citazione  diretta  dell'imputato,  strumento propulsivo nelle
mani  della persona offesa, ed il diritto di impugnazione, sicche' la
limitazione  che  colpisce  quest'ultimo  finisce  con il ricadere in
maniera  decisiva sulla specifica finzione annessa alla giurisdizione
di  quel giudice, tesa a valorizzare le prevalenti esigenze di tutela
della  vittima  del  reato, stravolgendo, quindi, uno dei pilastri di
quel   giudizio   e   rendendo   poco   razionalmente  giustificabile
l'attribuzione alla competenza del giudice di pace di alcuni reati in
cui e' centrale la figura della vittima, sicche' non sembrano neppure
ragionevoli le deviazioni dal rito ordinano.
   Peraltro,  un'ulteriore  irragionevolezza  deriva,  per  una parte
della  dottrina,  all'interno dell'art. 9 della legge n. 46 del 2006,
giacche',  se  da  un lato si riduce entro una dimensione prettamente
civilistica  il  danneggiato  mediante  l'abrogazione  dell'art.  577
c.p.p.,  si  fa  permanere un ampio potere in capo alla parte offesa,
che  puo'  ricorrere anche agli effetti penali avversa la sentenza di
proscioglimento,  sicche' uno squilibrio ed un'irrazionale disparita'
tra  le  parti e nel giudizio dinanzi al giudice di pace si evidenzia
da parte di chi tenderebbe a ridurre i poteri della parte offesa.
   Non   sussiste,  nemmeno,  alcuna  esigenza  semplificativa  o  di
ragionevole  durata  del  processo,  in  quanto,  mentre  prima erano
sufficienti  due  passaggi, ora ne occorrono quattro: all'assoluzione
ingiusta  potevano conseguire l'appello ed il ricorso, ma oggi, nella
migliore  delle  ipotesi,  allo  stesso  risultato  si giunge dopo il
ricorso  del  pubblico  ministero,  il nuovo giudizio di primo grado,
l'appello  contro  la  decisione di condanna ed il ricorso avverso la
sentenza  confermativa, sicche' la dilatazione dei tempi processuali,
nelle contravvenzioni attribuite alla competenza del giudice di pace,
finisce  con  l'incidere  sulla loro prescrizione e per tutti i reati
sulla ragionevole durata del processo.
   Infine, non sembra neppure richiamabile il contenuto del messaggio
del  Presidente della Repubblica, con cui nel rinviare alle Camere la
legge  «Pecorella»  si sottolineava l'incongruenza di aver conservato
l'appello  del  pubblico  ministero  nella  disciplina  del  rito del
giudice  di  pace,  giacche', essendo venuti meno gli artt. 1, 2 e 10
secondo comma della legge n. 46 del 2006, non ha piu' ragion d'essere
una simile giustificazione, tanto piu' che nell'introduzione di detta
norma  da  parte  del  legislatore  non si sono neppure richiamate le
finalita'  di speditezza e di semplificazione di detto procedimento e
neppure  quella  della  ragionevole  durata del processo, esattamente
tutte  da dimostrare «stante la possibilita' che la natura, di regola
solo  rescindente, del giudizio di cassazione - determini nel caso di
impugnazione   di  una  sentenza  di  proscioglimento  viziata  -  un
incremento  dei  gradi  di  giudizio  occorrenti  per  pervenire alla
sentenza definitiva» (Corte cost. sent. n. 320 del 2007) in contrasto
pure con gli altri connotati di questa giurisdizione.
   In  conclusione, ne deriva la violazione degli artt. 3 e 111 Cost.
a  causa dell'integrale ablazione del potere di appello del p.m. tale
da  generare  una  disimmetria  complessiva dei poteri accordati alle
parti   nell'ambito   di   questa  giurisdizione,  le  cui  peculiari
caratteristiche  sono  penalizzate e svilite, se non stravolte, dalle
modifiche  apportate  all'art.  36,  d.lgs.  n. 274  del  2000  e dal
correlato  regime transitorio di cui all'art. 10, secondo comma della
legge in parola.