LA CORTE DI CASSAZIONE Ha pronunciato la seguente ordinanza sul ricorso proposto dal Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d'appello di Genova nei confronti di 1) Sommaria Matteo nato il 25 maggio 1984; 2) Bertocchi Attilio nato il 28 agosto 1938; avverso sentenza del 25 novembre 2005 del giudice di pace di Voltri. Visti gli atti, la sentenza ed il ricorso; Udita in pubblica udienza la relazione fatta dal consigliere Novarese Francesco; Udito il Procuratore generale in persona del dott. G. Febbraro che ha concluso per il rigetto del ricorso; Udito, per la parte civile, l'avv. P. Asta in sostituzione dell'avv. E. Lamberti che si costituisce per gli eredi e si riporta alle conclusioni scritte con cui chiede l'accogliemento del ricorso del p.g. ovvero la sua conversione in appello; Uditi, i difensori avv. C. Zadra per Sommariva e P. Bugliolo per Bertocchi i quali chiedono il rispetto del ricorso proposto dal p.g. Il Procuratore, generale presso la Corte di appello di Genova ha proposto ricorso per cassazione, depositato il 10 marzo 2006, avverso la sentenza del giudice di pace di Voltri, emessa in 25 novembre 2005, depositata il 31 gennaio 2006, con la quale Sommariva Matteo e Bertocchi Attilio, rispettivamente in qualita' di conducente e di istruttore alla guida, venivano assolti dal reato di lesioni personali colpose gravi ed aggravate dalla violazione delle norme sulla circolazione stradale, deducendo quali motivi l'omessa ammissione di una prova decisiva e l'illogicita' manifesta e carenza di motivazione in ordine all'omessa ammissione di una perizia tecnico-infortunistica, tesa ad accertare le modalita' del sinistro, poiche' non potevano ritenersi sufficienti il rapporto della Polizia Municipale, i rilievi fotografici e le acquisizioni processuali di deposizioni testimoniali, giacche' i due veicoli, al momento del sinistro, erano in moto, e la violazione ed errata applicazione degli artt. 41 e 43 c. p. e dell'art. 141 cod. strad., poiche', all'approssimarsi di un incrocio, occorre procedere con un grado elevatissimo di cautela ed avvedutezza e non poteva ritenersi un fatto del tutto imprevedibile, in assenza di cordoli o altra delimitazione con ostacoli fissi, la possibilita' che un veicolo, invece di effettuare la svolta a destra, giacche' percorreva la corsia a cio' deputata, proseguisse la marcia, consentita dalla corsia esterna, e venisse in collisione con altro veicolo che stesse svoltando a sinistra. Dalla narrazione della vicenda processuale risulta che la sentenza ed il deposito della motivazione sono stati effettuati prima dell'entrata in vigore della legge n. 46 del 2006, mentre solo l'impugnazione e' stata proposta il giorno successivo, sicche', ai tini di individuare la normativa applicabile occorrerebbe riferirsi ad alcune tematiche relative al principio tempus regit actum e precisamente, oltre all'impostazione generale, all'individuazione del momento in cui opera in materia di impugnazioni ed alla qualificazione giuridica della stessa. Tuttavia, l'art 10, secondo comma, legge n. 46 del 2006 nello stabilire il regime transitorio prevede che «l'appello proposto contro una sentenza di proscioglimento... dal pubblico ministero prima della data di entrata in vigore della ... legge, viene dichiarato inammissibile con ordinanza non impugnabile» sicche' il preciso dato normativo di questa disposizione, che non puo' essere ritenuta contenere un termine impreciso «proposto», la cui pregnanza, invece, discende dal sistema delineato, dimostra l'opzione effettuata tra le varie tesi avanzate in dottrina ed in giurisprudenza. Ed invero, la pacifica giurisprudenza di questa Corte (Cass., sez. IV, 7 giugno 2004, n. 25303, rv. 228952 e Cass., sez. I, 1° marzo 2006, n. 77403, rv. 233137), ha affermato che il principio tempus regit actum concerne ogni legge processuale, anche in tema di impugnazione. Pertanto, sara' sufficiente riassumere detti indirizzi: per le decisioni su richiamate deve applicarsi fa norma vigente al momento della proposizione dell'impugnazione, (cfr. anche Cass. sez. I, 20 dicembre 2001, Salerno rv. 220372; Cass., sez. VI, 11 maggio 2000, n. 5558, rv. 216414 e Cass. sez VI 11 luglio 2001/ n.27858, rv. 219974), mentre altre (Cass. sez. un 30 aprile 2002, n. 16102 non massimata sul punto, Cass., sez. III, 18 febbraio 2002, n. 6493 e Cass., sez. V, 14 febbraio 2003, n. 7370 non massimata sul punto) ritengono applicabile il nuovo regime impugnatorio solo alle sentenze depositate successivamente all'entrata in vigore ed altre ancora (Cass., sez. V, 29 settembre 2001, n. 3484, rv. 219817 e Cass., sez. V, 9 ottobre 2001, n. 36354, rv. 2l9816) individuano detto tempus nel periodo intercorrente tra la pronuncia della sentenza e la scadenza del termine per impugnare, ed, infine, altre (Cass., sez. III, 6 agosto 2001, n. 30541, rv. 220582, ispirate da Cass., sez. un., 15 maggio 1989, n. 4, rv. 181343 e Cass., sez. un, 25 febbraio 1984, Vedda in Cass. pen. 1984, 2143 e confortate di recente da Cass., sez. un, 12 luglio 2007, n. 2761 4, p.c. in proc. Lista) considerano quale linea di discrimine il momento di emissione della sentenza. Percio', dato atto che, in seguito alla dichiarazione di illegittimita' costituzionale del regime transitoria, lo stesso non si applica piu' all'appello proposto in data anteriore all'entrata in vigore della legge avverso le sentenze di proscioglimento da parte della pubblica accusa limitatamente al giudizio ordinario ed abbreviato, secondo quanto chiarito dalla sentenza n. 320 del 2007 della Corte costituzionale, mentre nei confronti delle altre disposizioni permane la validita' di detta norma in uno con quella a regime nella fattispecie, l'impugnazione deve ritenersi «proposta» sotto il vigore della nuova legge n. 46 del 2006, in quanto un esame sistematico dell'art. 10, legge cit., dimostra l'esistenza di un inequivoco dettato normativo, che individua quale punto di discrimine tra i due differenti regimi impugnatori quello dell'epoca di proposizione dell'impugnazione e non l'altro del momento in cui e' stata pronunciata la sentenza. Risolta questa problematica, bisogna affrontare la tematica relativa alla qualificazione giuridica dell'impugnazione, giacche' costante giurisprudenza di questa Corte (Cass., sez. IV, 12 novembre 2003, n. 43367, rv 226410 e Cass., sez. IV, 26 ottobre 2004, n. 41694, rv 230079), in applicazione della disciplina generale del codice di rito (art. 568 c.p.p.), richiamata in via suppletiva da quella concernente il giudice di pace (art. 2, d.legs. n. 274 del 2000), ha ritenuto ammissibile il ricorso per saltum avverso le sentenze di quel magistrato ed ha individuato il giudice di rinvio in quello monocratico del tribunale, perche' cosi' indicato dall'art. 39, legge citata sicche' avverso le sentenze di proscioglimento del giudice di pace per reati puniti con pena alternativa qual e' quello in esame e' ammesso il predetto ricorso (art. 36, d.lgs. cit.), con conseguente applicazione dell'art. 569 terzo comma, ove venga dedotto un vizio motivazionale o l'omessa assunzione di una prova decisiva. Orbene, nella fattispecie, il ricorso riguarda la violazione dell'art. 606, lett. d) ed e) c.p.p., oltre all'erronea applicazione degli artt. 41 e 43 c.p., sicche', ove si qualificasse l'impugnazione come ricorso per saltum, occorrerebbe convertirlo in appello ai sensi del citato art. 569 c.p.p., ma, in base all'art. 10, primo comma, legge n. 46 del 2006, la disciplina limitativa dell'appellabilita' delle sentenze di proscioglimento, anche nel giudizio dinanzi al giudice di pace, si applica a tutti i procedimenti in corso, sicche' occorrerebbe individuare nel primo giudice quello competente. Pertanto, sotto entrambi questi aspetti, appare rilevante la questione di legittimita' costituzione degli artt. 9, secondo comma e 10, secondo comma, legge n. 46 del 2006, nella parte in cui, attraverso la modificazione introdotta nell'art. 36, d.lgs. n. 274 del 2000, non consente al pubblico ministero di appellare la sentenza di proscioglimento del giudice di pace e correlativamente prevede che l'appello proposto (o, se si vuole, tale qualificato) avverso la predetta sentenza dal p.m. prima dell'entrata in vigore della legge «Pecorella» sia dichiarato inammissibile con ordinanza non impugnabile in relazione agli artt. 3 e 111 Cost. Dimostrata la rilevanza della questione di legittimita' costituzionale sollevata, la stessa non appare manifestamente infondata anche alla luce dei contenuti delle sentenze nn. 26 e 320 del 2007 della Corte costituzionale, con le quali sono state dichiarate l'illegittimita' costituzionale dell'art. 10, secondo comma, legge n. 46 del 2006, nella parte in cui prevede che l'appello, proposto dal pubblico ministero, prima della data di entrata in vigore della legge medesima, contro le sentenze di proscioglimento, emesse in giudizio ordinario ed abbreviato, e' dichiarato inammissibile. A tal riguardo, tralasciata la trattazione di ogni problematica circa il perimetro del giudizio di costituzionalita', il principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, l'oggetto del giudizio in via incidentale della Corte costituzionale, cioe' se siano le norme o le disposizioni, e la portata dell'art. 27, legge n. 87 del 1953, rilevando, comunque, che il Giudice di legittimita' delle leggi (ex gr. vicenda del solve et repete sent. n. 21 del 1961 e poi n. 79 s.a. e nn. 45 e 86 del 1962) ha sempre escluso l'implicita caducazione di norma «identica» nella sua ratio rispetto a quella dichiarata incostituzionale, ove questa norma debba essere indicata con riferimento a differenti parametri testuali, occorre esaminare le sentenze nn. 26 e 320 del 2007 su indicate attraverso la descrizione della loro struttura e dei principi affermati. La Corte costituzionale effettua un ampio excursus sul principio di parita' delle parti che include pure il regime delle impugnazioni e non comporta necessariamente l'identita' dei poteri processuali del p.m. dell'imputato con riferimento alle numerose pronunce in tema di inappellabilita' da parte del primo delle sentenze di condanna, emesse con il rito abbreviato, salvo che non sia intervenuta modificazione del titolo del reato ed afferma, in conformita' con dette decisioni, che le alterazioni della simmetria dei poteri delle parti devono trovare una giustificazione razionale e ragionevole, in un'ottica di complessivo riequilibrio dei poteri, e nel ruolo istituzionale del pubblico ministero. Pone, quindi, al centro dell'articolata pronuncia come principio coessenziale del giusto processo, in suscettibile di essere posto in secondo piano rispetto agli altri versanti contenuti nell'art. 111 Cost. (contraddittorio, imparzialita' e terzieta' del giudice), quello della parita' delle parti, non limitato al solo «procedimento probatorio», ma dotato di una specifica dimensione garantista che informa l'intera vicenda processuale e che era enucleabile dal sistema dei valori costituzionali. Una diversa e differente lettura del principio evocato finirebbe «per attribuire al principio di parita' delle parti, in luogo del significato di riaffermazione processuale dei principi di cui all'art. 3 Cost., un'antitetica valenza derogatoria di questi ultimi: soluzione tanto meno plausibile a fronte del tenore letterale della norma costituzionale, nella quale la parita' delle parti e' enunciata come regola generalissima, riferita indistintamente ad "ogni processo" e senza alcuna limitazione a determinati momenti o aspetti dell'iter processuale» (Corte cost. sent. n. 26 del 2007). Pertanto il principio di ragionevolezza e di eguaglianza e quello di parita' delle parti sono i due pilastri su cui si fondano le due decisioni della Consulta su richiamate. Riaffermata l'assenza di un riconoscimento costituzionale al doppio grado di giurisdizione e svolte queste premesse generali, la Corte sgombra il campo da un equivoco insidioso, consistente nella possibilita' di giustificare una determinata differenza sul semplice rilievo della presenza nel sistema di altre asimmetrie, in quanto il vaglio di ragionevolezza «va condotto sulla base del rapporto comparativo tra la ratio che ispira, nel singolo caso, la norma generatrice della disparita' e l'ampiezza dello scalino da essa creato tra le posizioni delle parti: mirando segnatamente ad acclarare l'adeguatezza della ratio e la proporzionalita' dell'ampiezza di questo "scalino" rispetto a quest'ultima», e richiede l'effettuazione di detta verifica per non svuotare di significato il principio di parita' delle parti. Dichiara, quindi, l'illegittimita' costituzionale degli artt. 1 e 2 e 10, secondo comma, legge cit. sulla base del contrasto con gli artt. 3 e 111 Cost., in quanto l'asimmetria e' radicale cioe' estesa a qualsiasi processo ed anche ai casi di totale «soccombenza» del p.m. in contrasto con le esigenze di una verifica piena della correttezza delle valutazioni del giudice di primo grado e della possibilita' di errori, e' generale cioe' non e' limitata ad alcune categorie di reati ed e' unilaterale cioe' non trova alcuna specifica «contropartita» in particolari modalita' di svolgimento del processo, giacche' tali non sono l'esigua limitazione del potere di impugnazione delle sentenze di proscioglimento da parte dell'imputato, l'ampliamento del motivo deducibile in Cassazione ex art. 606, lett. e) c.p.p., esteso ad entrambe le parti, e la possibilita' piu' astratta che concreta di poter proporre appello, ove sussista una prova successiva decisiva, mentre la previsione dell'inappellabilita' delle sentenze di proscioglimento e' «intrinsecamente contraddittoria rispetto al mantenimento del potere di appello del pubblico ministero contro le sentenze di condanna». Esamina, infine, le obiezioni alla possibilita' di appellare una sentenza di proscioglimento da parte del p.m. contenute nella relazione alla c.d. legge Pecorella, rilevandone: d) l'erroneita' in relazione alla pretesa natura «persecutoria del gravame» che, invece, tende ad i attuare i principi di legalita' ed eguaglianza e lo scopo istituzionale del p.m. di assicurare la corretta applicazione della legge penale; e) l'inconferenza del riferimento all'art. 2 del protocollo addizionale n. 7 della CEDU ed all'art. l4, paragrafo 5 del c.d. Patto di New York, poiche' dette norme sono state modificate, prevedendo eccezioni quale quella espressa della condanna in secondo grado; f) la non decisivita' dell'affermata distonia del sistema fondata sul rapporto mediato del giudice di appello con le prove, giacche' tale argomentazione vale pure per la sentenza di condanna, sicche' viene censurato il carattere settoriale della novella senza una revisione organica delle impugnazioni, nel cui ambito, con le direttive tornite ed ulteriormente sviluppate nella parte finale della motivazione, potrebbe inserirsi una bilanciata revisione dei poteri delle parti. Il dispositivo delle sentenze in esame per tutte le disposizioni scrutinate utilizza la locuzione «nella parte in cui» sicche' si e' in presenza di una dichiarazione di illegittimita' costituzionale parziale, nel senso che non concerne tutte le disposizioni contenute nella legge e relative ad altri giudizi. Con riferimento all'art. 10, legge cit., poi, la sentenza n. 320 del 2007 ha spiegato che l'omessa dichiarazione di illegittimita' costituzionale del primo comma non rileva, in quanto esprime solo il principio generale tempus regit actumt mentre quella del terzo comma non interessa, perche' detta norma rimane inapplicabile, una volta che anche per il giudizio abbreviato sia venuta meno la possibilita' di dichiarare inammissibile l'appello proposto dal p.m. prima dell'entrata in vigore della legge n. 46 del 2006. Questa sentenza dimostra in maniera evidente come la Corte costituzionale consideri in maniera separata i vari giudizi e dichiari l'illegittimita' costituzionale dell'art. 10 solo in relazione ad alcune tipologie, tanta e' vero che sono state sollevate varie questioni di legittimita' costituzionale per gli altri (cfr. da ultimo Cass., sez. II, 6 novembre 2003, proprio sull'art. 9, legge n. 46 del 2006). La questione di legittimita' gia' individuata, a parere del collegio, presenta le medesime ragioni sviluppate dalla Consulta nelle sentenze nn. 26 e 320 del 2007 e gia' riassunte, sicche' le stesse non vengono ripetute per evitare ridondanze di trattazione, limitandosi a correlare i principi espressi con la peculiarita' della giurisdizione di pace. A tal riguardo, non ignora il collegio le numerose pronunce del Giudice di legittimita' delle leggi, mirabilmente riassunte nell'ordinanza n. 28 del 2007, con le quali si e' rimarcato «come il procedimento davanti al giudice di pace presenti caratteri assolutamente peculiari, che lo rendono non comparabile con il procedimento davanti al tribunale, e comunque tali da giustificare sensibili deviazioni rispetto al modello ordinario» (ex plurimis ord. n. 27 del 2007, nn. 85 e 415 del 2005 e nn. 10, 11, 55, 56, 57, 201 e 349 del 2004 e n. 231 del 2003), illustrando le forme alternative di definizione del giudizio, non previste dal codice di rito, la connotazione del procedimento caratterizzato da un'accentuata semplificazione, dall'attribuzione alla competenza del giudice di pace di reati di minore gravita' con un apparato sanzionatorio autonomo, dal ruolo particolare della persona offesa e della conciliazione tali da giustificare razionalmente l'esclusione dei c.d. riti alternativi (ord. n. 228 del 2005), e dal ruolo marginale che, in detto procedimento, e' assegnata alle indagini preliminari (ord. n. 349 del 2004). Tuttavia, a parere del collegio, dette caratteristiche possono giustificare sensibili deviazioni dal modello del codice di rito, ma non il completo stravolgimento del regime delle impugnazioni, tanto piu' che non sempre reati bagatellari sono attribuiti alla competenza del giudice di pace. A tal proposito, bisogna richiamare la questione di legittimita' costituzionale degli artt. 4, 52, 63 e 64 d.lgs. n. 274 del 2000 con riferimento agli artt. 3, 27, terzo comma e 32 Cost. sollevata da questa sezione nella parte in cui attribuiscono il reato di lesioni personali colpose commesse con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale alla competenza del giudice di pace con la conseguente applicabilita' delle sanzioni previste dal predetto art. 52, d.lgs. n. cit. Infatti, senza addentrarsi nell'esposizione e considerazione di detta questione, ove la stessa venisse dichiarata inammissibile o manifestamente infondata o, comunque, non fondata e, quindi, rigettata, apparirebbe ancor piu' evidente l'asimmetria radicale cioe' estesa a qualsiasi tipologia di processo ed anche ai casi di totale soccombenza, in un giudizio come quello in esame, relativo alla violazione delle norme sulla circolazione stradale, in cui le esigenze di una verifica piena della correttezza delle valutazioni del giudice di primo grado e della possibilita' di errori, traspare da tutto il primo motivo e dalle caratteristiche di questi reati, per i quali, anche dopo due gradi di giudizio, il ricorso per cassazione a volte impinge considerazioni nel merito. Peraltro, permarrebbe, comunque, l'unilateralita', in quanto non esiste alcuna vera contropartita all'esclusione del potere di appellare attribuito al p.m., non giustificabile, a parere del collegio, dalla limitazione ad alcune categorie di reati, atteso il particolare impatto sociale di alcuni di essi, mentre appare contraddittorio il mantenimento del potere di appellare le sentenze di condanna a pena diversa da quella pecuniaria. Torna, ancora, in rilievo l'esatto monito del Giudice di legittimita' delle leggi, secondo cui la riforma del regime di appellabilita' delle sentenze non puo' essere settoriale e, peggio, parziale, ma deve essere inquadrata in un discorso generale e globale sulla rimeditazione del regime delle impugnazioni, sicche', pure sotto questo profilo, i connotati peculiari del giudizio dinanzi al giudice di pace divengono sfumati ed appaiono non coessenziali al particolare vulnus agli artt. 3 e 111 Cost., rilevato gia' dalla Corte costituzionale. Non sembra neppure inquadrabile l'impossibilita' di appellare le sentenze di proscioglimento e di assoluzione da parte del p.m. in un riequilibrio dei poteri di impugnazione attribuiti all'imputato in maniera piu' limitata rispetto al rito ordinario nel caso di sentenza di condanna alla sola pena pecuniaria, in quanto la possibilita' di esperire detto gravame da parte del prevenuto esiste qualora sia stata pronunciata condanna anche generica al risarcimento del danno (art. 37. d.lgs. n. 274 del 2000), mentre, secondo qualche voce dottrinale, non sarebbe applicabile al p.m. il nuovo dettato del secondo comma dell'art. 593 c.p.p., nonostante i limitati e poco decisivi effetti gia' ampiamente chiariti nelle sentenze nn. 26 e 329 del 2007 della Corte costituzionale. Inoltre, a parere del collegio, il collegamento esistente tra potere di impugnazione della parte offesa, nei casi di cui all'art. 21, d.lgs. cit., e quello del p.m. (art. 38, d.lgs. cit.) finisce con il ridurre drasticamente il molo attribuito alla stessa in contrasto con un connotato tipico del procedimento dinanzi al giudice di pace, incidendo in maniera considerevole sulle sue peculiari caratteristiche. Non e' un caso che nella relazione al decreto legislativo in esame venisse posto in luce il nesso di interdipendenza tra la disciplina della citazione diretta dell'imputato, strumento propulsivo nelle mani della persona offesa, ed il diritto di impugnazione, sicche' la limitazione che colpisce quest'ultimo finisce con il ricadere in maniera decisiva sulla specifica finzione annessa alla giurisdizione di quel giudice, tesa a valorizzare le prevalenti esigenze di tutela della vittima del reato, stravolgendo, quindi, uno dei pilastri di quel giudizio e rendendo poco razionalmente giustificabile l'attribuzione alla competenza del giudice di pace di alcuni reati in cui e' centrale la figura della vittima, sicche' non sembrano neppure ragionevoli le deviazioni dal rito ordinano. Peraltro, un'ulteriore irragionevolezza deriva, per una parte della dottrina, all'interno dell'art. 9 della legge n. 46 del 2006, giacche', se da un lato si riduce entro una dimensione prettamente civilistica il danneggiato mediante l'abrogazione dell'art. 577 c.p.p., si fa permanere un ampio potere in capo alla parte offesa, che puo' ricorrere anche agli effetti penali avversa la sentenza di proscioglimento, sicche' uno squilibrio ed un'irrazionale disparita' tra le parti e nel giudizio dinanzi al giudice di pace si evidenzia da parte di chi tenderebbe a ridurre i poteri della parte offesa. Non sussiste, nemmeno, alcuna esigenza semplificativa o di ragionevole durata del processo, in quanto, mentre prima erano sufficienti due passaggi, ora ne occorrono quattro: all'assoluzione ingiusta potevano conseguire l'appello ed il ricorso, ma oggi, nella migliore delle ipotesi, allo stesso risultato si giunge dopo il ricorso del pubblico ministero, il nuovo giudizio di primo grado, l'appello contro la decisione di condanna ed il ricorso avverso la sentenza confermativa, sicche' la dilatazione dei tempi processuali, nelle contravvenzioni attribuite alla competenza del giudice di pace, finisce con l'incidere sulla loro prescrizione e per tutti i reati sulla ragionevole durata del processo. Infine, non sembra neppure richiamabile il contenuto del messaggio del Presidente della Repubblica, con cui nel rinviare alle Camere la legge «Pecorella» si sottolineava l'incongruenza di aver conservato l'appello del pubblico ministero nella disciplina del rito del giudice di pace, giacche', essendo venuti meno gli artt. 1, 2 e 10 secondo comma della legge n. 46 del 2006, non ha piu' ragion d'essere una simile giustificazione, tanto piu' che nell'introduzione di detta norma da parte del legislatore non si sono neppure richiamate le finalita' di speditezza e di semplificazione di detto procedimento e neppure quella della ragionevole durata del processo, esattamente tutte da dimostrare «stante la possibilita' che la natura, di regola solo rescindente, del giudizio di cassazione - determini nel caso di impugnazione di una sentenza di proscioglimento viziata - un incremento dei gradi di giudizio occorrenti per pervenire alla sentenza definitiva» (Corte cost. sent. n. 320 del 2007) in contrasto pure con gli altri connotati di questa giurisdizione. In conclusione, ne deriva la violazione degli artt. 3 e 111 Cost. a causa dell'integrale ablazione del potere di appello del p.m. tale da generare una disimmetria complessiva dei poteri accordati alle parti nell'ambito di questa giurisdizione, le cui peculiari caratteristiche sono penalizzate e svilite, se non stravolte, dalle modifiche apportate all'art. 36, d.lgs. n. 274 del 2000 e dal correlato regime transitorio di cui all'art. 10, secondo comma della legge in parola.